Tre ore. Non è il tempo di lettura di questo racconto, che però – meglio saperlo prima – non sarà breve. Se vuoi una notizia leggi dei cento metri, se vuoi un racconto leggi della maratona. Direbbe così Emil Zatopek, che colse il suo primo successo importante proprio a Berlino. Se vai a Berlino, gli amici podisti neanche ti chiedono a cosa punti. Ci si va per fare grandi cose, perché il percorso ha poche curve, le strade sono abbastanza larghe, il pubblico e l’organizzazione sono perfetti e spesso l’ultima domenica di settembre il clima è l’ideale. Quelli forti ci vanno per fare il record del mondo, è successo per ben 6 volte dal 1998 a oggi. Kennenisa Bekele e Wilson Kipsang (il penultimo a riuscirci) sono lì per questo. Quelli (molto) meno forti ci vanno come minimo per battere il proprio record personale, se non per abbattere i muri. Tre ore è “il” muro.
Spyridon Louis, primo olimpionico di maratona, vinse la gara di Atene 1896 in 2h58’50”. Ma erano poco più di 40 chilometri.
Sono lì per questo e gli amici lo sanno senza chiedermelo. A Ferrara, 6 mesi prima, avevo chiuso in 3h05’35”, soffrendo molto quei maledetti 2-3 km di sterrato e molte curve nel finale. Lì ho deciso che il momento di provarci era arrivato. Il percorso di Berlino mi avrebbe aiutato e lavorando sui ritmi in allenamento avrei potuto farcela, il 25 settembre. Tutto calcolato. Tranne il fatto che per arrivare pronto il 25 settembre devi macinare chilometri in piena estate… Hai voglia a parlare di ritmi in allenamento, quando alle 5 del mattino fanno 18 gradi… Non solo i tempi dei “lunghissimi” (allenamenti oltre i 30 km) erano peggiori di quelli realizzati prima di Ferrara, ma una volta ci avevo messo tre ore per fare 36 chilometri. «Bè, con le tre ore ci siamo. Ora devi aumentare i chilometri» mi aveva detto uno che ne sa. Il ribaltamento di prospettiva mi aveva spiazzato. Poi l’ho spiazzato io dicendogli che il miglior lunghissimo lo avevo fatto correndo 30 volte un anello da 1200 metri, pur di restare sempre all’ombra. L’avevo corso a 4’31” al km. «Quindi a Berlino puoi fare 3h10’» mi aveva detto un altro che ne sa. Sentivo di poter fare meglio, considerando clima e percorso, ma non certo tre ore. Che faccio? Proverò “solo” a fare il personale? «Vai lì apposta per le tre ore. Non ha senso non rischiare», mi ha detto una che ne sa non solo di sport, ma anche di me. Correrò. Il rischio di essere felice.
Per completare una maratona sotto le tre ore bisogna aver corso una mezza maratona in 1h24′. Io l’ho corsa in 1h25′ due anni fa.
Sono tutti felici, al villaggio maratona il giovedì pomeriggio. C’è la birra, ma è meglio aspettare. Passeranno a offrirtela all’arrivo e quando prenderai un bicchiere te ne offriranno un secondo. Il ritiro del pettorale è rapido, le foto con il record del mondo e sul finto podio sembrano addirittura beneauguranti, ma siccome la scaramanzia non va mai stuzzicata troppo è meglio non acquistare la t-shirt da “finisher” prima di averla finita. Col braccialetto ufficiale da questo momento in poi ci si riconoscerà tutti, per le strade di Berlino, scambiandosi occhiate di solidarietà. Anche il cibo è quello giusto. Neanche me ne accorgo e sono passate tre ore. Scusa, hai detto tre ore?
Per completare una maratona sotto le tre ore bisogna correrla a una media di 4’15” al km.
Sono tutti felici anche il sabato mattina alle 9.30 al castello di Charlottenburg. Da lì, nel 1990, partì la prima maratona di Berlino della Germania unita. Oggi (sabato) parte la “Breakfast Run”, corsa di 6 chilometri con arrivo allo stadio Olimpico. Sono tutti felici, colorati, mascherati, entusiasti, di qualsiasi tipo di fisico, colori, etnie e nazionalità. Ci sono l’orso berlinese, donne in reggiseno e reggiseni senza donne, crucchi, trucchi e parrucche, samurai, cowboy, cheerleader, vichinghi, una bambina in bicicletta che molla i pedali e si mette a correre. Mi metto a correre anche io, che non lo faccio mai il giorno prima. Per fortuna dopo pochi metri c’è la metro e non corro più un metro. Alla fermata scopro che non sono il solo che raggiungerà l’arrivo così. Stadio Olimpico di Berlino. Jesse Owens. Campioni del mondo. Kitei Son, giapponese vincitore della maratona del 1936, che finalmente ora sulla lapide che ricorda i vincitori ha impresso il nome giusto (Son kee-Chung) e la nazionalità giusta (Corea). Ma questa è un’altra storia. Così come anche la “breakfast” e la “run” del giorno dopo saranno tutta un’altra storia. Guardo i krapfen che distribuiscono ai partecipanti, scatto foto, vedo gente, mi sdraio sul prato e mi accorgo che sono le 12.30, cioè che sono passate tre ore.
Si dice che andare sotto le tre ore è come prendere la laurea, per un maratoneta.
Tre ore prima della maratona è il tempo giusto per fare colazione. E fin qui, tutti d’accordo. Un po’ meno sul come farla. I tre tedeschi di una squadra di Ironman, dopo i tre piatti di pasta (tre, come le ore) della sera prima, si riempiono il vassoio di qualsiasi cosa. Va bene le abitudini, ma dovete fare “solo” una maratona, mica aggiungerci quasi 4 chilometri di nuoto e 180 di bicicletta… I giapponesi mangiano funghi, cetrioli e salmone, gli americani uova (quanti danni ha fatto Rocky Balboa…), un tizio di nazionalità qualsiasi si prende qualsiasi cosa dolce farcendola con qualsiasi cosa, non necessariamente dolce. Digeriranno in tre ore?
In tre ore ci sono 10800 secondi.
L’organizzazione è perfetta, in poco tempo circa quarantamila persone riescono ad arrivare davanti al Reichstag, cambiarsi, entrare nelle griglie, scaldarsi al Tiengarten (uno dei tanti pezzi di foresta in mezzo ai quali c’è Berlino) e lasciare tutto pulito. Il maxischermo proietta una serie di video realizzati da concorrenti di tutte le nazionalità che nelle rispettive lingue mandano messaggi benauguranti a tutti. Gli italiani appaiono per ultimi, perché sono in gruppo, realizzano un messaggio cantando in coro e si prendono gli applausi più forti di tutti. Mentre vengono presentati i top runner, ognuno cerca la concentrazione a modo suo. Davanti a me, una ragazza si siede per terra e inveisce contro quelli che rischiano di calpestarla. Dietro di me, un signore lancia la bottiglietta d’acqua verso un secchio e fa canestro. Accanto a me, un giapponese prega. E io come la cerco? Guardandomi intorno. Quello che devo fare lo so. Rischiare. Se qualcosa è mancato nella preparazione, metterla qui. Anzi, non è quello che devo fare, è quello che voglio fare nelle prossime tre ore.
Ogni tre ore nel mondo nascono 45000 bambini.
La porta di Brandeburgo, che segnalerà l’arrivo imminente, è circa 3-400 metri dietro. Noi però andiamo avanti. Iniziamo così, allontandoci dall’arrivo. Straße de 17 juni (il 17 giugno è sempre una data importante) è larga, ma è meglio prendere subito la destra, in vista della prima curva, che è quasi al km 2 ma dove invece la strada è un po’ più stretta. Si va abbastanza bene, rigorosamente un po’ più piano del ritmo previsto, perché l’esperienza insegna che è meglio così. Un paio di curve ampie ci portano su Moabit Straße, dove si riesce a prendere il ritmo abbastanza bene e si arriva al km 5. Primo dei tantissimi ristori, anche se già si è capito che la maratona di Berlino non ti lascia mai solo. Non c’è un metro senza pubblico, non c’è un metro senza un incitamento. E pazienza se gli spagnoli Paco e Kike ogni tanto scattano di qua e di là. Non è che sono amici miei, è solo che si sono stampati il nome sulla maglia, che ha i colori della Spagna e dato che in quel punto ci sono tanti spagnoli tra il pubblico, gli incitamenti sono tanti e a ognuno rispondono con uno scatto. Poi accelerano, per fortuna. Al km 7 siamo ancora al Reichstag, ma non è che siamo tornati al punto di partenza: semplicemente, siamo dall’altro lato. Un rifornimento mi fa perdere tempo (anni di maratone e ancora non ho imparato a bere dal bicchiere, qualcuno mi aiuti), ma non solo quello. I secondi 5 km (21’59”) sono più lenti dei primi 5 (21’35”) e sento che dovrei essere più fresco, almeno quanto il clima, che peraltro è perfetto. Ho anche 14 secondi di ritardo sulla mia personalissima tabella e ad Alexander Platz decido di fare ciò che non bisognerebbe mai fare in questi casi: recuperarli nel più breve tempo possibile e non gradualmente. Siamo qui per rischiare, no? Funziona. Dopo l’undicesimo chilometro corso in 4’09” torno a un ritmo meno veloce ma le gambe rispondono bene. Anzi, lo prendo come un test superato. Vuol dire che le sensazioni erano fuorvianti e che in realtà sono più fresco di come temevo. Alexander Platz, auf Wiedersehen. Solo i miei passi lungo i viali. Sento solo quelli, pur essendo in mezzo a tanti altri podisti e sempre sostenuto da tanto pubblico. In Italia non ho mai sentito così tanti “Luca!”, eppure anche nelle maratone italiane c’è il nome stampato sul pettorale. Al km 15 ho 3” di vantaggio sulla mia personalissima tabella. Alla mezza maratona ho ancora 3” di vantaggio. Ho tenuto sempre lo stesso ritmo, eppure a qualche passaggio mi sono scordato di guardare il cronometro. Spontaneamente ho messo il cervello in modalità basso consumo. E sento le gambe meglio di come stavano 10 km prima, come se il tempo si fosse fermato all’orologio del tempo del mondo di Alexander Platz.
Il muro di Berlino è crollato tra le 19 e le 22 del 9 novembre 1989. In tre ore.
Sono stato in una specie di bolla in quegli undici chilometri iniziati ad Alexander Platz e finiti poco prima del Rathaus Schoneberg, dove Kennedy disse “Io sono un berlinese”. Uno dei tanti momenti chiave della storia di una città simbolo della guerra fredda, che ideologicamente si vestiva anche sullo scontro tra collettivismo e individualismo. Bè, in quegli undici chilometri in piena Berlino Est riuscivo sia a sentire l’energia di una collettività che in strada correva con me e ai bordi mi incitava, sia a mantenere le mie energie solo per i miei passi, i miei muscoli, i miei respiri e soprattutto il mio obiettivo. Lo so che non c’entra niente, ma aver provato queste sensazioni a Berlino mi aiuterà a ricordare, ogni volta che sentirò dire che siamo in guerra, che forse se ci sentissimo in pace un po’ tutti si potrebbe anche spegnere il fuoco con l’acqua. Se volete vivere un’esperienza, correte la maratona, diceva Zatopek. Mi permetto di modificare: se volete vivere un’esperienza di pace, correte la maratona di Berlino. Il più lento del mondo partirà dalla stessa linea, e arriverà allo stesso punto, del più veloce del mondo. E intorno a voi avrete tutto il mondo. Dico io, dove la trovate un’altra roba così?
In tre ore di corsa si bruciano circa tremila calorie.
Insomma, alla mezza maratona per la prima volta prendo coscienza che si può fare una cosa grande, dato che le forze sembrano esserci tutte. Calma, però. Essere alla mezza maratona non significa affatto essere a metà dell’opera, dato che la maratona inizia non prima del km 35. Aspettando l’inizio, altro segnale positivo: inizio a superare sempre più persone. Ritrovo anche il giapponese che pregava e che mi era scattato davanti. Non mi riconosce, ma garantisco che ora non sta pregando. Il mio ritmo è sempre quello, dal 20 al 25 corro in 21’40”, ma evidentemente sono gli altri che hanno fatto male i conti. Più o meno al mio stesso ritmo, oltre al giapponese, c’è anche Ryu, che però è coreano e che si è fatto stampare sulla maglietta la lista di maratone portate a termine. Ha un buon passo, per un po’ sto con lui, ma poi mi accorgo che è meglio seguire gli sposini. Gli sposini vanno forte. Hanno magliette uguali, verdi, con la bandiera tedesca dietro e si incoraggiano a vicenda. Lui in un paio di occasioni lascia indietro lei, poi torna indietro e mi guarda male. Calma amico, vengo in pace e se teneste un ritmo un po’ più regolare mi metterei anche a tirare. Loro però non sono proprio regolari. Lui è di sicuro un perfetto cavaliere, perché ai rifornimenti si sposta, prende acqua e sali minerali per entrambi, poi torna da lei e glieli consegna, naturalmente guardandomi male. Decidono di lasciarmi indietro. Fate pure, ci vediamo più tardi. Chissà, forse sono Ralf e Christin Bochroeder, che nel 1975 furono i vincitori della maratona di Berlino (rispettivamente maschile e femminile naturalmente) e che erano marito e moglie, oltre che membri della società organizzatrice.
In tre ore si arriva da Roma a Milano. Col treno.
Sono arrivato al km 30 e sono riuscito ad aumentare: gli ultimi 5 km li ho fatti in 20’49”, a 4’10” al
km, e ho 7” di vantaggio sulla tabella di marcia, che però prevede di andare a 4’13”. E infatti aumentano, al km 35 sono 20”. Ciao sposini, ve l’avevo detto che ci saremmo rivisti. Ciao Paco, ciao Kike. Eh lo so, non ci sono spagnoli qui a Kufurstendamm, dove c’era l’arrivo fino al 2000. Siamo finalmente arrivati all’inizio della maratona. Ormai è chiaro che se riesco a tenere questo ritmo ce la faccio. Sto facendo una cosa grande. La maratona in meno di tre ore. C’è anche un australiano che sembra tenere bene lo stesso ritmo. Sto con lui. O è lui che sta con me? Non importa. Al km 36 passo in 2h33’40” e penso a quell’allenamento in cui li avevo fatti in tre ore. Tre ore.
In tre ore si arriva dall’Eur alla stazione Termini. Con la macchina.
Al km 37 ne mancano 5. Philarmonie, Potsdamer Platz. Km 38. Fatto in 4’11”. Non corro così tanto dal 20 marzo. Pensiero sbagliato, mai pensare in negativo. Negative split, quello sì, nel senso che sto facendo la seconda parte più veloce della prima. Sì, il rischio calcolato esiste e lo sto correndo. Correndo il rischio di essere felice. Km 39, all’improvviso sento qualcosa che non va. Siamo a Gendarmenmarkt e per la prima volta le gambe sembrano dire di no. Le cosce bruciano, che le stessi usando un po’ più del solito (per spingere più del solito) lo avevo capito, ma ora bruciano davvero. Devo tenere, in qualche modo. In questi casi è sempre il pensiero di chi mi vuole bene e che mi ha sopportato e supportato per arrivare fino a qui che mi aiuta. Funziona anche stavolta, anche se mentre le cose sembrano migliorare l’australiano mi supera. No, non va bene. Lui stava seguendo il ritmo giusto, se mi arriva davanti rischio di non farcela. Torno a guardare il cronometro: 2h50’25”, km 40. Ma cosa sto facendo? Ma che cosa vuoi che ti dica il cronometro ora? Spingi. Conta i passi come fai nelle gare brevi, per andare più forte possibile e come a volte fai anche nelle maratone ma oggi non lo avevi mai fatto. E’ come pescare un’arma segreta. Riprendi l’australiano, superalo. Continua a non guardare il cronometro, non guardare il cartello del km 41, perché non vuol dire che manca un chilometro e i 195 metri sono decisivi. Non guardare neanche la porta di Brandeburgo, perché tutti dicono che l’arrivo è lì e invece è 300 metri dopo. Guarda avanti e corri il rischio di essere felice.
In 2h59’18” si arriva dalla Porta di Brandeburgo alla Porta di Brandeburgo. Di corsa.
MARATONA DI BERLINO 2016
Organizzazione: * * * * *
Percorso: * * * * *
Pacco gara: * * *
Expo: * * * * *
Pubblico: * * * * *
Città: * * * *
Fantastico.Non finiro’ di stimarti.
Sabatini, figlio di un calcio istintivo, puro, che fuma sigarette, che prende freddo e si annega sotto al diluvio guardando un ragazzo nascosto da tutti, e forse ci sarà’ anche la nebbia che si insinua nei paramenti, ma il suo calcio e’ ricco di provincia, vive di artisti dell’arte antica, a fatica esce dalla cantina intossicata dal fumo, dalla luce soffusa, dal silenzio dove pensare, studiare e sperare nella stoppata giusta o nelle traiettorie che vorrebbe vedere sul campo dai suoi giocatori, dai cognomi diversi ma tutti suoi figli. In dissenso con la linea manageriale del Presidente Pallotta, reo, secondo lui, di praticare un calcio di statistiche e cinicamente freddo. Vuole avere spazio per inventare, di inventarsi acquisti, di praticare un massaggio erotico al pallone e studiare non l’estetica esterna, ma il cuore che batte dentro.
Grazie Walter, ho sentito la tua voce roca intrisa di Marlboro ma anche di un emozione forte; ti vorrei abbracciare, severo, immaginifico, un poeta all’università’ di matematica. Ho vissuto la tua conferenza ad occhi sbarrati, sentivo il tuo trasporto e ho pianto perché’ alla fine mi hai dato un passaggio.
Un grandissimo personaggio. Già mi manca. Rapporto giunto alla sua naturale conclusione, è tutto il calcio che cambia. Ieri su Repubblica c’era un’intervista al figlio di Gaetano Scirea, che fa l’analista per la Juventus e raccontava che anche lì prima si guardano i giocatori e poi si controllano le statistiche. E detto dal figlio di un simbolo del calcio antico, come Gaetano Scirea, fa ancora più effetto.
ho appena letto alla mia Fagiana il tuo racconto, l’ha sorseggiato come un drink al tramonto.
Meno male, se non le fosse piaciuto se la sarebbe presa con te 🙂
Come si fa a non apprezzare i tuoi racconti, sono puliti, veri, escono limpidi dalla fabbrica.
Si vede che sei una gran persona anche se non ti conosco, non serve il 3d.
Ti seguo, ti ascolto, ti leggo.
Quando leggo Juventus mi viene l’orticaria, ma Scirea e’ stato un artista del vecchio calcio, il famoso libero.
Non buttava via la palla, sapeva impostare e pure gradiva qualche licenza in avanti.
Nella mia Italia c’era Scirea che comandava la difesa.
Composto, giocatore di stile, silenzioso e stimato da tutti.
Zoff, Gentile, Cabrini, Brio, Scirea.