Era strano che ci si ponesse anche solo il dubbio. Gli sport invernali in Italia non esprimono niente all’altezza di Arianna Fontana ed è quindi giusto che sia lei la portabandiera ai Giochi olimpici invernali che si terranno in Corea. Quattordici podi mondiali, una Coppa del Mondo, cinque medaglie olimpiche, sul podio sia a Torino, quando a soli 16 anni fu bronzo in staffetta, sia a Vancouver sia a Sochi. Ha scelto e sciolto il ghiaccio subito. Ma Arianna Fontana non è solo questo e non è solo tutti gli altri allori della sua carriera che se continuiamo ad elencare finisce il giornale. Solo Stefania Belmondo e Manuela Di Centa, tra le donne della neve e del ghiaccio, hanno fatto meglio.
Arianna Fontana è un esempio di serietà, applicazione e di quella sana testardaggine che è fondamentale per poter lavorare su un talento prima di tutto atletico. Poteva tranquillamente andare fortissimo sulla pista all’aperto, senza ghiaccio: 12 secondi nei 100 metri senza allenamento specifico. Invece ha preferito la pista corta, da 111 metri. Per questo si chiama “Short Track”, perché la pista è, appunto, corta. Devi scattare subito, non hai tempo per pensare né per respirare. Arrivano tutti con la lingua di fuori e ci mettono vari secondi per farsi passare il fiatone. Un minimo errore manda in fumo tutto, capita a chiunque, è capitato anche a lei. I telecronisti americani definiscono spesso la sua partenza «the most inusual start». La trovano bizzarra. «Parto col piede destro girato, già pronto per la curva. Mi piace, ho guadagnato un paio di decimi. Vengo dal pattinaggio a rotelle, ho iniziato a 4 anni per imitare mio fratello, già avevo questa abitudine, che poi ho provato anche all’ europeo e perfezionato. Avanzo con il destro, per fare rotazione di caviglia. Se non schizzo via subito, non le riprendo più alle altre». Col tempo ha migliorato anche la tenuta e la resistenza. Col tempo, grazie soprattutto ai suoi risultati di quattro anni fa, lo short track in Italia ha smesso di essere famoso solo per l’incredibile vittoria di Steven Bradbury a Salt Lake City 2002 o – anche se già le ricordano in pochi – per le vittorie di Fabris a Torino 2006. Aumentano i praticanti. Arianna e soc(h)i.
Si allena spesso con gli uomini, perché non ha rivali. Il suo uomo, il canadese Anthony Lobello, è un pattinatore anche lui. Lo faceva già da piccola. Il suo allenatore metteva in palio 100 euro di tasca sua per chi arrivava prima alla balaustra. Era il suo modo per chiudere gli allenamenti. Nove volte su dieci Arianna batteva i maschi e se li intascava. Una volta si ruppe un malleolo e uscì dalla pista senza versare una lacrima. Solo le lastre rivelarono la frattura. In pochi, soprattutto nei primi anni di carriera, possono dire di averla vista esultare dopo una vittoria. Non si accontentava mai e forse è per questo che è diventata una delle migliori al mondo e ci è rimasta, con una continuità ad alto livello rara per uno sport dove resistere tanto a lungo in vetta è durissima. Centoundici metri di adrenalina, di corpo a corpo, perché sulla pista corta non ci sono le corsie e allora spesso diventa anche uno scontro fisico. Ci vuole un fisico bestiale. Ci vuole molto allenamento. «Sicuramente non è la cosa più facile del mondo – ha raccontato – Bisogna allenarsi duramente e anche la vita di tutti i giorni richiede una buona dose di disciplina. Mi alleno quasi tutto il giorno, entro la mattina alle 8.00 e esco la sera alle 19.00». Alta 1,61 per 54 chili, la sua designazione a portabandiera è una bella notizia, come lo è sempre quando, in casi del genere (e non è scontato) prevale il criterio prettamente sportivo.
(Da “Il Romanista” del 25/10/2017)