Si sono incontrati molto giovani. Lei molto più giovane di lui, perché Ekaterina Gordeeva aveva 11 anni quando gli allenatori della nazionale russa di pattinaggio artistico decisero che il suo compagno ideale era Sergej Grinkov, che di anni ne aveva 15. Quattro anni sono tanti, in quella fase della vita. Sono il tempo che passa tra infanzia e adolescenza, oltre che il tempo di un’Olimpiade. Più che si sono incontrati, insomma, li hanno fatti incontrare. Qualcuno di loro avrà dubitato quando, dopo pochi mesi, lei si rompe le braccia perché non trova la presa del compagno. Le ci vorrà un po’ di tempo – e a quell’età il tempo è dilatato – per tornare a ricadere su una gamba sola. Un anno, più o meno. Meno di quei quattro che passano tra le Olimpiadi di Sarajevo, viste in tv, e quelle di Calgary, vinte. Sì, perché l’intesa tra Ekaterina e Sergej, nonostante la differenza d’età e d’esperienza, è perfetta, sul ghiaccio e non solo. Lo capiscono tutti, lo vedono tutti, ma Sergej per baciarla deve nascondersi dietro un giornale sul pullman della squadra, dove certe cose non sono permesse.
La nascita di Daria nel 1991 non consente loro di essere pronti per Albertville 1992, ma a Lillehammer 1994 ci sono e rivincono. Dopo di loro, nessun’altra coppia è mai riuscita a conquistare due vittorie nei Giochi olimpici. Ci è riuscito Artur Dimitriev, sì, ma con due partner differenti. Sembrano una persona sola. Una persona che si trasferisce nel Connecticut, dove l’inverno è simile a quello russo e dove Sergej, che capisce bene l’inglese, sceglie di non parlarlo per non perdere le sue tradizioni. Si allenano, ballano, partecipano a esibizioni, di quelle dove invitano solo i più bravi e i più belli. Riesce sempre tutto bene. Per questo Ekaterina un giorno a Lake Placid si preoccupa quando vede Sergej piegarsi male e diventare rigido. E’ bianco e freddo, come il ghiaccio. Ghiaccio che si spezza, però, come il cuore di Ekaterina, perché quello di Sergej non batte più. Infarto. Non c’è niente da fare. A ventotto anni. Era successo anche al padre, ma a cinquantasei, e dopo ben tre “avvisi”.
“Sembrava dormisse. Aveva ancora i pattini ai piedi. Glieli ho tolti io”. Sono le parole di Ekaterina, quelle che precedono un lungo silenzio. Funerali di stato a Mosca, il vecchio appartamento nella capitale russa con solo un letto e la tv, i vani tentativi di farla uscire un po’ di amici, genitori e della vecchia allenatrice. Niente, solo silenzio. C’è solo una cosa che può far tornare la felicità a chi è nato per stare sul ghiaccio: ritornarci. Quando viene a sapere che il 27 febbraio 1996 i vecchi amici e avversari di Sergej organizzeranno un’esibizione in suo onore, si fa mandare i suoi pattini dal Connecticut e inizia ad allenarsi di nascosto. Da sola è strano, ma in realtà Sergej c’è. “Ti aiuterà”, le sussurra la vecchia allenatrice e, nella sorpresa generale, Ekaterina compare sul ghiaccio dell’Hartford Civic Center di New York. Balla sulle note della quinta sinfonia di Mahler, cercando con le braccia qualcuno che non c’è, ma in realtà sì, perché i movimenti sono perfetti come una volta.
Il tempo è ripartito in quel momento. Un mese dopo era ancora sul ghiaccio per un’altra esibizione, poi ne ha fatta un’altra, poi tante altre ancora. Oggi ha un altro marito e un’altra figlia, la vita è ricominciata un giorno di febbraio del 1996 quando, mentre tutti piangevano, ha sorriso e tra le braccia che prima cercavano Sergej ha preso la piccola Daria. Aveva quattro anni, come la differenza d’età con Sergej. Come il tempo di un’olimpiade.