(da Il Romanista del 10 febbraio 2018)
Nel 1988, in occasione dei Giochi olimpici di Seul, “Topolino” affidò un messaggio di pace a una storia in 8 puntate che vedeva protagonisti due bambini. Si chiamavano Kim Don-ling e Chen Dai-len, giocavano a pallavolo divisi da una barriera di bambù all’altezza del trentottesimo parallelo, perché erano uno coreano del sud e una del nord. La forza della loro amicizia e dell’incapacità di comprendere i motivi di certe divisioni vinse. Ieri i Giochi sono tornati in Corea del Sud, con la cerimonia di apertura che è stata affidata a cinque bambini. Sono stati loro, simboli dei cinque elementi (acqua, fuoco, legna, metallo, terra) ma anche dei cinque cerchi olimpici, i protagonisti della prima parte dell’evento all’interno dello stadio Olimpico di PyeongChang, costruito apposta per la cerimonia dato che non ospiterà gare. I cinque bambini hanno guidato il pubblico, dal vivo e in tv, in un viaggio all’interno della storia dei valori della Corea. Filo conduttore armonia e sintesi, Yin e Yang, simboleggiati anche all’interno della bandiera. Equilibrio. O, in altri termini, pace. Almeno questo credono i bambini, che siano veri o personaggi di fumetti. Armonia del cosmo. Magari fosse vero. La bandiera della nazione ospitante viene portata da campioni sudcoreani di Skeleton,
short track (una religione in Corea del Sud), sport non invernali come baseball e maratona. C’è anche, visibilmente ingrassato, Hwang Young-cho, campione olimpico di maratona a Barcellona 1992 e allievo di quel Sohn Kee-chung costretto a farsi chiamare Kitei Son. Con quel nome, vestendo divisa del Giappone, salì sul gradino più alto del podio della maratona a Berlino 1936. Altri tempi, perché la Corea era una vittima, ma non tanto, perché lo sport veniva usato come propaganda di cose brutte. Grazie a Jesse Owens e Luz Long, però, i valori dell’uomo vinsero anche sull’orrore nazista.
Tocca agli atleti. Inizia la Grecia, senza di lei le Olimpiadi non esisterebbero. Si va avanti rispettando l’ordine alfabetico coreano. Alle 12.56 arriva l’Italia, con il sorriso di Arianna Fontana che conferma la bontà della scelta del Coni per la portabandiera. Alle 13.12 sfila la Corea unita, due atleti di sponde diverse portano insieme la bandiera che rappresenta due paesi praticamente in guerra. Applaude il presidente della Corea del Sud, applaude la sorella del dittatore della Corea del Nord. Nel finale tornano i cinque bambini. Tra i fiori. E’ l’una e spunta anche la luna, presenza muta di ogni dio. Due compagne di squadra della Nazionale coreana di hockey, una del sud e una del nord, consegnano la torcia a Yuna Kim, ex star del pattinaggio artistico. E’ lei l’ultima tedofora che accende il braciere.
Una bella cerimonia. Sobria e significativa. La Corea sfila unificata. “E’ tutta una finta”, si affrettavano a scrivere ieri i giornali americani riguardo a questi presunti segnali di apertura da parte della Corea del Nord. Dicevano fosse una finta anche la “diplomazia del ping-pong”, negli anni 70, invece lo scambio di visite tra giocatori di tennistavolo fu l’inizio della ripresa dei rapporti tra USA e Cina. Tempi di guerra fredda. Più dell’aria di PyeongChang, oggi sarà a -10. In ogni caso, se è una finta, ce lo dirà la storia. L’importante, però, è che nella possibilità di pace credano, appunto, i bambini. E che ci credano anche da grandi. Provarci toccherà a loro, visto che i grandi di oggi non ce la fanno. Le Olimpiadi, sia con le imprese degli atleti sia con questi messaggi, dicono sempre che ciò che sembra impossibile in realtà è possibile.