(Da Il Romanista dell’11 febbraio 2018)
Un’adozione, una gravidanza inaspettata, una grande passione per l’hockey. Sono gli ingredienti principali di una delle storie più particolari dei Giochi di PyeongChang 2018. Quella delle sorelle Brandt, entrambe giocatrici di hockey. Solo che Hannah giocherà per gli Stati Uniti, Marissa per la Corea del Sud. Non è una novità assoluta per lo sport, sia chiaro. Solo nel calcio, ad esempio, si ricordano le recenti vicende dei fratelli Boateng (Ghana e Germania), Alcantara (Thiago è sportivamente spagnolo, Rafinha brasiliano) e Xhaka (Svizzera e Albania). A Sydney 2000 fece scalpore la storia di Mia Hudvin e Camilla Andersen, che erano fidanzate ma si affrontarono da avversarie in Norvegia-Danimarca di pallamano. Ma quella è un’altra storia ancora.
Il percorso che ha portato le due sorelle ad essere avversarie, almeno potenzialmente, dato che Corea del Sud e Stati Uniti sono in due gironi diversi, è segnato dal destino. Parte tutto da Minneapolis, dove il ghiaccio è di casa. Greg e Robin Brandt, dopo tanti tentativi infruttuosi, si sono convinti che non possono avere figli. E così un giorno, dopo una procedura per l’adozione lunga due anni, arriva finalmente Marissa, la loro figlia adottiva, che viene dalla Corea del Sud. E che ha già una sorella perché, incredibilmente, Robin è incinta di tre mesi e sta aspettando Hannah. “Dopo aver provato per tanto tempo, abbiamo avuto due figlie in sei mesi”. Se c’è un miracolo sul ghiaccio non è la finale di Lake Placid 1980 Usa-Urss, ma questo.
Iniziano entrambe col pattinaggio artistico, ma poi passano all’hockey, grande passione dei genitori. “Non ho mai sognato di poter andare alle Olimpiadi” racconta Marissa. Già, perché la più brava, e forse anche più determinata, è Hannah. Fino al licelo sono compagne di squadra, ma poi Hanah diventa una star nella squadra dell’università di Minnesota. Vince tre titoli Ncaa, viene convocata per i Mondiali del 2012 a soli 18 anni, ma non per Sochi 2014. Reazione? Lavorare ancora di più per PyeongChang. Lo fa e ce la fa. Oggi è lì dove voleva essere fin da bambina, alle Olimpiadi. Marissa, invece, non lo sognava nemmeno. Continua a giocare, ma neanche fa l’associazione di idee tra l’edizione dei Giochi del 2018 e il fatto che si disputino là dove è nata. Organizzare i Giochi è un onore ma anche un onere. La Corea del Sud è qualificata di diritto in tutte le specialità, ma diciamo che l’hockey su ghiaccio non rientra proprio nelle specialità nazionali e allora scatta la corsa a costruire la nazionale più competitiva possibile. “Hanno setacciato gli elenchi online di tutti i programmi universitari di hockey americani – ha raccontato Marissa al New York Times – cercando donne con cognomi che sembravano essere coreani. Stavano facendo shopping”. Lo fanno bene, trovano anche lei, nonostante il cognome sia Brandt, perché risalgono alla sua adozione. Quando riceve l’email prima pensa allo spam, poi capisce che è una richiesta seria. Due settimane dopo prende l’aereo e torna per la prima volta in quel posto dove non poteva ricordare di essere mai stata, figuriamoci nata. La Corea del Sud. “Non conoscevo nessuno lì, non conoscevo la lingua, non sapevo nulla. Come farò a sopravvivere qui?, pensavo”. Il provino va bene. Marissa accetta, prende la cittadinanza ed entra in squadra. Ci vogliono cinque mesi. Inizia un lungo su e giù tra Stati Uniti e Corea del Sud che l’ha portata proprio a PyeongChang. Con il suo nome di nascita. Sulla maglietta, nelle liste ufficiali, risulta Park Yoon-Jung. Non cercate il nome Brandt, lo troverete solo nella squadra americana. Lì c’è Hannah, la figlia che i genitori non aspettavano e che è arrivata dove tutti si aspettavano: alle Olimpiadi. Là c’è Marissa, la figlia che i genitori aspettavano e che è arrivata dove nessuno, compresa lei, si aspettava: alle Olimpiadi. No, non cercate un’altra storia come quella delle sorelle Brandt. Non cercate niente di meglio delle Olimpiadi.