Ci sono i miti, quelli come Martin Fourcade, che vincono anche quando perdono, anzi, soprattutto dopo che perdono. Ci sono i personaggi, come Lindsey Vonn, che il 14 febbraio chiede su twitter “Chi vuol essere il mio Valentino?” e di cui non capisci mai bene i confini tra il personaggio e il campione (e campionessa lei lo è sicuramente). Ci sono gli italiani che ti mostrano la parte migliore di un’Italia che può fare grandi cose senza accampare scuse o dare colpe agli altri quando le cose non vanno. Come Windisch, Fontana, Pellegrino e speriamo non solo. Poi ci sono i volti, i colori, le storie che fanno un’Olimpiade. Nel senso vero e proprio del termine, perché i Giochi olimpici sono i 15 giorni di gare che stiamo vivendo in questo periodo, ma l’Olimpiade è il periodo di tempo di 4 anni che intercorre tra un’edizione e l’altra. Quattro anni sono una vita. Per chi punta al massimo e per chi punta ad esserci.
Mai un’edizione dei Giochi olimpici invernali è stata più universale di questa. Ben 92 nazioni partecipanti, sei di loro – Ecuador, Eritrea, Kosovo, Malesia, Nigeria e Singapore – al debutto assoluto. E tra questi, atleti che non hanno mai visto la neve o gareggiato sul ghiaccio. Gente che vuole ritagliarsi uno spazio per onorare i colori della propria bandiera. Anche partecipando da solo. Ci sono 17 nazioni rappresentate da un solo atleta al punto che verrebbe quasi da ridere parlare di squadra olimpica. Eppure ci sono con i loro sforzi e la loro storia da raccontare. Non ha bisogno di presentazioni è Pita Taufatofua, detto anche l’uomo di Tonga. Primo atleta dello stato polinesiano a partecipare a un’Olimpiade, quella di Rio 2016, in qualità di atleta di taekwondo. Ma Pita, che non è passato inosservato dopo la sfilata a torso nudo come portabandiera nella cerimonia di apertura di due anni fa, ci prova anche quest’anno – un po’ a sorpresa – nello sci di fondo. Disciplina che ci regala altri due debuttanti: German Madrazo, messicano che impugnato gli sci per la prima volta in vita sua solo l’anno scorso, e Klaus Jungbluth Rodriguez che porta l’Ecuador per la prima volta alle Olimpiadi invernali. Sollevava pesi, si è infortunato, ora per tutti è “lo sciatore dell’asfalto”, perché in mancanza di neve si allena per strada con un paio di skiroll costruiti in Norvegia. Ha dovuto convincere il Comitato Olimpico dell’Ecuador a fondare una federazione degli sport invernali, di cui è l’unico tesserato. Dall’argentina arrivano in 6, compresi Nicol e Sebastiano Gastaldi, che sono nati a Piove di Sacco, non lontano da Padova: il padre, un istruttore di sci, ha sposato un’italiana. Lo è anche la “togolese” è Alessia Afi Dipol, una dei due atleti che schiera in campo il Togo: nata a Pieve di Cadore, già affiliata alla Federazione sciistica indiana, naturalizzata togolese, è già stata portabandiera a Sochi 2014. Anche la Thailandia ha due italiani: Mark e Karen Chanloung, nati e cresciuti in Valle d’Aosta.
E non finisce qui: Albin Tahiri è il primo atleta kosovaro in una Olimpiade. Ha 18 anni, è anche lui
Mai un’edizione dei Giochi olimpici invernali è stata più universale di questa. Ben 92 nazioni partecipanti, sei di loro – Ecuador, Eritrea, Kosovo, Malesia, Nigeria e Singapore – al debutto assoluto. E tra questi, atleti che non hanno mai visto la neve o gareggiato sul ghiaccio. Gente che vuole ritagliarsi uno spazio per onorare i colori della propria bandiera. Anche partecipando da solo. Ci sono 17 nazioni rappresentate da un solo atleta al punto che verrebbe quasi da ridere parlare di squadra olimpica. Eppure ci sono con i loro sforzi e la loro storia da raccontare. Non ha bisogno di presentazioni è Pita Taufatofua, detto anche l’uomo di Tonga. Primo atleta dello stato polinesiano a partecipare a un’Olimpiade, quella di Rio 2016, in qualità di atleta di taekwondo. Ma Pita, che non è passato inosservato dopo la sfilata a torso nudo come portabandiera nella cerimonia di apertura di due anni fa, ci prova anche quest’anno – un po’ a sorpresa – nello sci di fondo. Disciplina che ci regala altri due debuttanti: German Madrazo, messicano che impugnato gli sci per la prima volta in vita sua solo l’anno scorso, e Klaus Jungbluth Rodriguez che porta l’Ecuador per la prima volta alle Olimpiadi invernali. Sollevava pesi, si è infortunato, ora per tutti è “lo sciatore dell’asfalto”, perché in mancanza di neve si allena per strada con un paio di skiroll costruiti in Norvegia. Ha dovuto convincere il Comitato Olimpico dell’Ecuador a fondare una federazione degli sport invernali, di cui è l’unico tesserato. Dall’argentina arrivano in 6, compresi Nicol e Sebastiano Gastaldi, che sono nati a Piove di Sacco, non lontano da Padova: il padre, un istruttore di sci, ha sposato un’italiana. Lo è anche la “togolese” è Alessia Afi Dipol, una dei due atleti che schiera in campo il Togo: nata a Pieve di Cadore, già affiliata alla Federazione sciistica indiana, naturalizzata togolese, è già stata portabandiera a Sochi 2014. Anche la Thailandia ha due italiani: Mark e Karen Chanloung, nati e cresciuti in Valle d’Aosta.
E non finisce qui: Albin Tahiri è il primo atleta kosovaro in una Olimpiade. Ha 18 anni, è anche lui
sciatore, sloveno, ma suo padre è originario del Kosovo. Quando il paese si è autoproclamato indipendente dalla Serbia nel 2008, Albin che aveva appena 10 anni aveva già scelto di rappresentare il Kosovo nel mondo dello sport. Akwasi Frimpong, nato in Ghana, dopo 13 anni da immigrato irregolare in Olanda ha preso il passaporto olandese. Si è qualificato nello skeleton, durante la preparazione vendeva aspirapolvere porta a porta. Yohan Goutt, invece, porta Timor Est ai Giochi. Slalom speciale. Dopo Sochi e dopo una pausa di 18 mesi per contribuire ad alcuni progetti umanitari, è di nuovo all’Olimpiade. Che, ricordiamo, è un periodo di tempo. Una vita.