16 ottobre 1968. Cinquant’anni fa. La finale olimpica dei 200 metri a Città del Messico, il podio con i pugni chiusi di Tommie Smith e John Carlos, e la storia di Peter Norman, che pagò come e forse più di loro la vicinanza alla causa dei neri, pur essendo bianco e australiano.
Tommie Smith ne ha scritto in un numero di “Micromega” uscito nel 2008 quando, con l’avvicinarsi dei Giochi di Pechino, si tornò a parlare di diritti umani. Questa una sintesi del suo testo.
Negli anni Sessanta, le cose che venivano al primo posto erano l’orgoglio, il prendersi cura degli altri e l’ideale di fare di una persona un essere umano completo. Già gli atleti di una generazione successiva erano meno consapevoli di quanto non lo fossimo noi e più attratti dal denaro e dal divertimento. Darsi da fare negli anni Sessanta significava tracciare un sentiero su cui poi altri giovani hanno camminato: questo è orgoglio. Io non mi sento un militante. Semplicemente, quanto ho fatto a Città del Messico è quello che accade quando si decide di affrontare un problema molto evidente, nel momento in cui nessun altro aveva voglia di affrontarlo. Se persone come me iniziano ad affrontare un problema vanno dritte al cuore. E questo perché crediamo che non sia importante come ci giudica la gente: la cosa più importante è agire secondo quella che ci sembra essere la natura umana e non egoisticamente.
Non mi sono mai pentito di quello che ho fatto. Si dice che lo sport renda tutti uguali e che non ci sia razzismo nello sport, perché bisogna lavorare tanto per raggiungere qualche risultato. Non è vero. Il razzismo nello sport c’è. Il razzismo viene superato solo sulla linea di partenza di ogni gara: lì, il razzismo scompare, perché c’è solo un essere umano contro un altro essere umano. Ma quello che viene prima, le squadre, tutto ciò che serve per qualificarsi a quella gara, tutto ciò è razzismo, perché è politico.
Allora come oggi c’erano differenze in ogni parte del pianeta. Finché esisterà l’uomo ci saranno differenze. Nel 1968 ho sentito la responsabilità – ancor più che il bisogno – di attirare l’attenzione sulle atrocità che venivano perpetrate negli Stati Uniti.
Mi viene chiesto spesso perché ho usato le Olimpiadi per compiere quel gesto. Quale occasione migliore potrebbe esserci di un palcoscenico globale per far sapere a tutto il mondo della questione dei diritti civili? La nostra Costituzione parla di uguaglianza per tutti, ma le nostre lecite non rispecchiavano questa idea, quella di un paese in cui tutti fossero trattati nella stessa maniera. E allora quello per me era un palcoscenico globale per far sapere a tutto il mondo come la pensassi sulla questione dei diritti umani e civili. Alla San José State University, che Lee Evans, John Carlos ed io abbiamo frequentato, c’era una consapevolezza particolarmente alta delle ingiustizie del nostro paese. Il problema degli alloggi era terribile, non riuscivamo a trovare un posto dove poter abitare. Poi c’erano la questione dell’apartheid in Sudafrica, il club di atletica di New York che aveva delle pratiche amministrative razziste, tutte quelle situazioni in cui venivo insultato perché nero.
L’idea che gli atleti dovessero essere consapevoli di tuto ciò venne da uno studente un po’ più grande, che poi divenne un professore alla San José. Ci parlò dell’ineguaglianza e decisi, insieme a Lee Evans, di impegnarmi in un programma che avrebbe aumentato la consapevolezza di ciò che mancava al paese perché tutti fossero davvero rappresentati, neri compresi. Da qui è nato il progetto olimpico per i diritti umani .
Abbiamo deciso di impegnarci in un progetto completamente non violento, che ci offriva l’occasione di dire alle nostre comunità che eravamo coscienti di quello che stava accadendo e che avremmo usato le nostre capacità per puntare i riflettori sulla necessità di combattere per l’eguaglianza. Eravamo atleti, ed è stato solo un caso che le nostre capacità fossero impiegate nello sport e non nella politica.
Ancora oggi si racconta spesso che dopo quel gesto compiuto dal podio ci hanno tolto le medaglie, ci hanno cacciato dalla squadra olimpica, dal villaggio e dal Messico. Tutto ciò mi ha reso famoso, ma allora, quando sono tornato in America, ero odiato da tutti. (…) Quelle medaglie ce l’abbiamo ancora, e a volerla raccontare tutta nemmeno ci cacciarono dal villaggio. Fummo usati come pedine per dimostrare che l’America era più grande perché aveva vinto più medaglie.
Quello che io e miei compagni abbiamo rappresentato nel 1968 a Città del Messico è stato come l’apertura di una strada. Ci siamo sacrificati in modo che altri potessero avere un’opportunità. Sapevamo quello che facevamo? Sì e no. Io non sapevo quanto sarei stato attaccato una volta tornato nel mio paese. Ma mi rincuora sapere che dopo il nostro gesto, dei giovani hanno preso coraggio.