Il primo Robin del basket è stato un Batman. Proprio così. Nella biografia di Doctor J “The Rise and Rise of Julius Erving” di Vincent Mallozzi (trovata al negozio della Converse di New York qualche anno fa, ma questo non c’entra) c’è un capitolo intitolato “Batman e Robin” in cui Julius Erving è Robin. Batman è Charlie Scott, nelle partite sul mitico playground di Rucker Park a New York e in cui giocano sempre insieme. E’ proprio Erving che lo dice. “Lui era Batman e io Robin. Le partite erano Charlie contro Joe, Charlie contro Pee Wee, Charlie contro chiunque”.
Charlie Scott è un ottimo giocatore…
…e nel 1976 vincerà il titolo Nba con i Boston Celtics. Nel 1970/71 è rookie dell’anno nella ABA con i Virginia Squires, dove nel 1971 arriva Doctor J. I due si ritrovano, ma non sono più un duo. Non per i rapporti personali, ma in campo, dove in breve la squadra inizia a girare intorno a Erving. E ciò accade proprio perché ognuno ha dato qualcosa all’altro. “Charlie mi ha insegnato a spingere al massimo in ogni secondo, su ogni pallone”. “Julius mi ha insegnato la grazia e l’umiltà”. Nel 1972, Scott lascia gli Squires.
Il resto è abbastanza noto.
Il passaggio da Robin a Batman è una delle fasi che hanno portato alla formazione del giocatore che ha cambiato il basket e senza il quale “non ci sarebbe stato M.J.” (lo ha detto Michael Jordan, non un omonimo) e quindi senza il quale non ci sarebbe stato “The last dance”. Dove nell’episodio 7 si è tornato a parlare del più famoso “Robin” del basket, Scottie Pippen. “Underpaid” è ciò che si dice sempre di lui per quanto riguarda la sua esperienza ai Bulls. “Dopo il primo allenamento con gli Squires – racconta Charlie Scott – ho pensato subito che Julius Erving fosse sottopagato”.
Scottie Pippen non è Julius Erving
Non lo è. E naturalmente non è nemmeno Robin. Tutto sommato lo si è sempre saputo, negli ultimi anni è stato ribadito talmente tante volte che non c’è più bisogno di rendergli giustizia. Né c’è più bisogno di ribadire le sue qualità. Sapeva fare fondamentalmente tutto, e tutto con pochi rivali, e anche capire in ogni momento della partita che cosa servisse tirar fuori dal suo repertorio. Che non fosse solo il Robin di Batman Michael Jordan lo ha fatto vedere sia ai Bulls nell’anno e mezzo senza Jordan, sia negli anni successivi, quando ha anche iniziato a guadagnare cifre più commisurate al suo valore.
Retorica e antiretorica
L’antiretorica del primo violino mancato, però, col tempo sta quasi superando la retorica del secondo violino. Chissà, magari la verità sta semplicemente nel mezzo, che va ricercato cercando di non ragionare “per reazione”, come molti stanno facendo di fronte ad esempio ad alcuni toni arroganti di Jordan in The Last Dance e al modo in cui certi avversari sono stati rappresentati. Pure qui, se stiamo esaltando i Blazers del 1992, i Suns del 1993, i Sonics del 1996, e sicuramente lo faremo con i Jazz, è non solo perché sono state squadre fortissime, ma anche perché proprio il fatto che sono state battute hanno reso i Bulls di Jordan una squadra probabilmente irripetibile. Quei Bulls in cui Pippen non era Robin e lo si è visto anche negli anni con MJ.
In campo…
….ha sempre fatto ciò che serviva per far vincere la squadra, mettendo al secondo posto se stesso. Ma in campo non ci è andato sempre. Lo abbiamo visto sull’Aventino all’inizio di the last dance, perché sottopagato. Lo era, sì, ma perché non aveva saputo trattare. Forse, chissà, sapendo anche nel suo intimo di non essere Batman. Al punto di non saper gestire la sua emotività prima della gara7 persa con i Pistons. Jordan glielo ha spesso rinfacciato e anche grazie a questo col tempo è migliorato anche dal punto di vista emotivo. Nel periodo senza Jordan, si è rifiutato di entrare perché Jackson aveva disegnato l’azione per dare l’ultimo tiro a Kukoc e non a lui. “Ho sbagliato, ma lo rifarei”. Un ragionamento da Batman, ma non da Jordan. Che quando c’è stato bisogno ha passato la palla a Kerr ed è una delle tante cose per cui è il numero uno.
Scottie Pippen non è Robin e non è nemmeno Peter Parker.
Non è l’alter ego di Jordan e infatti senza di lui non si trasforma in lui. Sia a Chicago, sia a Houston (un po’ meno) sia a Portland (un po’ di più), fa vedere a tutti lo straordinario giocatore che è. E fa vedere molto di più tutte le cose che ai Bulls si sono viste poco. E’ efficace ed elegante, ha mani morbide e piedi esplosivi, ruba palloni, segna, prende rimbalzi, schiaccia. Ce ne sono pochi come lui, ma qualcuno che fa meglio di lui, anche come capacità di costruire e guidare una squadra, c’è sempre. Sono gli anni in cui si sta creando, ad esempio, un’altra alchimia mica semplice, ma quanto efficace, a San Antonio tra Duncan e Robinson. Tutto ciò gli toglie qualcosa? Assolutamente no. Aiuta, però, nel tentativo di definirlo in maniere il più equilibrata possibile. Già, perché…
Scottie Pippen non è Robin, ma non è nemmeno Paul McCartney
Non firma i dischi insieme a Jordan, non vale quanto lui e in fondo lo sa. Infatti non ci litiga mai, è l’unico a sopportare il carattere di MJ a parte la moglie dell’epoca Juanita (la cui assenza in The Last Dance si sente) quando il 23 se ne va, gli chiede di tornare e lo fa indicando davanti alle telecamere la scarpa “Air Jordan”. Senza di lui perde qualcosa, ma continua a dargli qualcosa. Nella costruzione di quella squadra perfetta, l’esempio non lo dà solo Jordan (“Non ho mai chiesto a un mio compagno di fare qualcosa che non facessi io per primo”) ma anche lui. Se uno così forte sa fare un passo indietro, possono e devono farlo tutti. Ma l’unico che va raccogliere il corpo esausto di Jordan dopo “The flu game” è proprio lui.
My way
Insomma, Pippen non è Robin, perché è stato molto di più di un secondo violino. Non è Julius Erving, perché non è diventato Batman. Non è Paul McCartney, perché non ha mai guardato da pari a pari il suo primo violino. Non era il secondo miglior giocatore della sua epoca perché qualcuno – pochi – ha fatto meglio di lui, compresi quelli che i Bulls di Jordan hanno battuto grazie a lui. Alla fine di tutto questo percorso, infatti, la definizione non l’abbiamo trovata. Forse perché non va cercata. Scottie Pippen è stato semplicemente un giocatore meraviglioso, unico sia per il suo talento sia per la sua psicologia, che a volte l’ha frenato e a volte l’ha aiutato. Ha fatto grandi cose, ha avuto qualche mancanza. Ha fatto tutto alla sua maniera, che non è quella di Robin e nemmeno quella di Batman. Che non è quella del secondo più forte giocatore della sua generazione, ma di uno dei più forti. E meno male che c’è stato, per i Bulls, per Jordan, per tutti coloro che l’hanno visto.