Indiana, 1986: un secondo prima della fine, 30 secondi dopo lo scadere dei 7 minuti, 7 anni prima di Phoenix, 12 anni prima di Kerr a Utah.
Un dettaglio per ogni episodio, dicevamo. Tra le cose su cui mi sono fermato un attimo in più in ciò che si è visto finora di “The Last Dance”, c’è il canestro di John Paxson allo scadere che, dando ai Bulls la vittoria su Indiana nel 1986, li porta ai playoff. I 7 minuti “concordati” di Jordan, che si stava già travestendo da Dio come poi avrebbe fatto al Boston Garden qualche giorno dopo, erano scaduti e, a 31″ dalla sirena, un punto sotto nella partita più importante, coach Albeck lo lascia in panchina. Sorveglia le operazioni Jerry Krause. L’azione dei Bulls è faticosa, non riescono a liberare nessuno per il tiro ma, marcato e sbilanciato, Paxson se lo prende e lo segna.
Phoenix, finali Nba, 1993.
Jordan è in campo, non c’è limite ai minuti, né c’è limite a ciò che può fare in campo. Ha praticamente segnato tutti i punti di Chicago, che è avanti 3-2 nella serie, nell’ultimo quarto. Sotto di due punti, la palla va a lui, ma viene chiuso ed è costretto a passarla. La palla non gli torna, finisce a un liberissimo Paxsons (vecchia regola: se c’è un raddoppio, qualcuno è libero), che a 3 secondi dalla fine segna il tiro da tre del sorpasso e del titolo. Ne aveva segnato uno simile, anche se da due e non a così pochi secondi dalla fine, nella gara decisiva delle finali 1991 vinte con i Lakers, le prime della dinastia.
1997
Gara 6 di finale tra Bulls (avanti 3-2) e Jazz, punteggio pari. Jordan dice a Kerr una cosa tipo: “Mi raddoppieranno, te la passerò”. Succede. Kerr, che ha una mano molto migliore di quella di Paxson, segna. Ne aveva già fatti di canestri così, ne farà altri con altre squadre, come ne farà uno che seguirà Jackson ai Lakers (Ron Harper), ne faranno altri (Derek Fisher, Robert Horry e non solo). Uomini giusti al posto giusto, nel momento giusto, nella squadra giusta. Il basket li premia spesso perché, fondamentalmente, è uno sport giusto. Vince sempre chi se lo è meritato.
Il tiro di Kerr nel 1997 è lo stesso di Paxson nel 1993, che è lo stesso Paxson del 1986.
Oppure è un po’ diverso, perché nel frattempo è migliorato e perché in squadra tutti sanno, da Jordan in giù, che ci si può fidare in certi momenti. E torniamo al punto di episodio 1. Il meraviglioso intreccio di competenze, anche tecniche, e personalità che sono stati i Chicago Bulls. Jordan avrebbe vinto senza quei tiri di Paxson e Kerr (che sono un simbolo: valgono come i rimbalzi di Rodman, i passi indietro di Pippen, eccetera)? Probabilmente no. E Paxsons e Kerr sarebbero stati così mentalmente pronti senza Jordan? Probabilmente no. Ci sarebbe stato “Dio travestito da Jordan” senza la vittoria a Indiana nel 1986? No. Se Jordan fosse stato in campo, avrebbe segnato lui quel tiro? Probabilmente sì. Ma lo ha segnato Paxson, scelto dal “cattivo” Krause, che era lì a controllare che Jordan non entrasse in campo.
E quello è uno dei momenti in cui sono nati i Chicago Bulls. E quello è anche uno dei momenti in cui Jordan ha iniziato a diventare il numero uno assoluto. Perché altri numeri 1, in situazioni simili, non hanno passato la palla ai loro Paxson e Kerr. Scelti da Krause e migliorati da Jordan.
Post scriptum: Oggi John Paxson è dirigente dei Chicago Bulls, per anni è stato proprio il successore di Krause, ma ora è stato soppiantato da Karnisovas. Uno che abbiamo visto spesso in squadroni europei e quei tiri li sbagliava quasi sempre.