L’episodio 6 di “The Last dance” rende ai Phoenix Suns, o almeno a Charles Barkley, molta più giustizia di quanto non avesse fatto l’episodio 5 con i Portland Trail Blazers o almeno con Clyde Drexler. Uno dei tanti aspetti del documentario è anche il fatto che, a volte più o a volte meno, ti ricorda che il basket è pur sempre uno sport di squadra. E che se Michael Jordan è diventato il numero uno è anche per la squadra che aveva intorno, composta da giocatori migliorati sia nelle loro caratteristiche sia nella loro “funzionalità”, oltre che nella testa, grazie a lui. Grandi squadre, naturalmente, erano anche quelle battute dai Bulls e vanno viste per capire quale sia stato il massimo livello raggiunto dai Bulls nei sei anni di successi.
Probabilmente i Portland Trail Blazers non sono riusciti a creare un contesto in cui, oltre a crescere gli altri, crescesse anche Drexler. Anche all’epoca, abbiamo preferito i Phoenix Suns battuti dai Bulls nella finale del 1993. Una squadra che aveva già fatto due finali di conference, che era cresciuta intorno al suo playmaker Kevin Johnson e che nell’estate del 1992 aveva fatto rumore prendendo Charles Barkley da Philadelphia (in cambio di Jeff Hornacek, Tim Perry e Andrew Lang).
Giocatore incredibile, Barkley.
A differenza di Jordan, era stato fatto fuori dalla squadra olimpica del 1984, ma era entrato a pieno titolo nel Dream Team del 1992. Uno dei miglori rimbalzisti pur non arrivando ai due metri, la capacità di saper essere fisico o tecnico a seconda delle necessità della partita, lui che a livello fisico aveva problemi di peso e a livello tecnico non aveva un qualcosa in cui eccellesse particolarmente. Eppure, sapeva fare bene tutto e sapeva, appunto, capire quando e cosa servisse per vincere le partite.
Lui andò a Phoenix perchè voleva vincere il titolo e Phoenix scelse lui per vincere il titolo.
Oltre a Kevin Johnson, che assicurava assist e punti, era una squadra decisamente ben costruita con un ottimo tiratore come Dan Majerle e un centro come Mark West. Mettigli accanto Barkley ed ecco, sotto canestro, un settore dove potevano essere superiori ai Bulls. Anche loro, come Portland, puntano sull’esperienza di Danny Ainge e ogni giocatore sa come rendersi utile. Arrivano in finale dopo tre serie dure con Lakers, Spurs e Sonics, dopo aver avuto il miglior record della lega (62-20).
La finale è una serie dall’andamento apparentemente assurdo.
Su 6 partite, per 5 volte vince la squadra fuori casa. Attenzione, però: in stagione regolare le due formazioni si erano affrontate due volte e in entrambe le occasioni aveva vinto la squadra fuori casa. Infatti in Gara1, che inizia con un minuto di silenzio in memoria di Drazen Petrovic, i Bulls vincono 100-92 a Phoenix.
Anche in Gara2 giocano meglio i Bulls, nonostante i Suns alzino il proprio livello. Per coloro che pensano che il basket sia uno sport individuale, Jordan e Barkley realizzano 42 punti a testa. Nell’ultimo quarto Danny Ainge guida la rimonta dei Suns. Sul 98-101 lui segna da tre (101-106), Jordan sbaglia e Ainge stavolta, invece di tirare da fuori, va in penetrazione: 103-106, altro errore di Jordan, e Phoenix va ancora dal suo uomo migliore. Pippen però legge bene la situazione e lo stoppa a 24″ dalla fine. Per fermare il cronometro Kevin Johnson va a commettere fallo su Pippen, che segna i liberi e di fatto chiude la partita. Finisce 108-111.
La determinazione dei Suns e di Barkley in gara3 è stata ben raccontata in “The last Dance”.
Quella, però, è la partita di coach Paul Westphal. Nel 1976 era in campo con i Celtics, che in gara5 della finale batterono proprio i Suns dopo tre tempi supplementari. Anche stavolta ci sono tre supplementari e lui diventa l’unico ad essere stato due volte in una partita di finale da tre supplementari. Stavolta la vince, anche grazie a una sua mossa. Toglie a Dan Majerle l’incombenza di marcare Jordan, affidato invece a Kevin Johnson, che in gara1 e gara2 ha giocato decisamente male. Bè, Majerle, liberato dal peso della difesa, ne segna 28. E Johnson, aiutato dal sentirsi responsabilizzato, torna se stesso e piazza 25 punti 9 assist. E Barkley? 19 rimbalzi. Jordan ne fa comunque 44, ma i Bulls perdono 129-121.
Due giorni dopo…
…il basket torna uno sport individuale. Peter Vecsey, uno dei “columnist” più importanti del giornalismo sportivo americano (che si è lamentato per non essere stato intervistato per il documentario), scrive Jordan inizia a dare segni di cedimento. The Last Dance ci ha mostrato quanto fosse conflittuale il rapporto tra MJ e la stampa in quei mesi. Ma i 24 tiri sbagliati in gara3 fanno sempre parte di quegli oltre novemila sbagliati grazie ai quali ha vinto tutto. Jordan ne segna 55, compreso il lay-up decisivo, con fallo di Barkley. Che peraltro è andato in tripla doppia (32 punti, 12 rimbalzi, 10 assist).
La serie è sul 3-1 per i Bulls…
…che per perderne una hanno dovuto costringere i Suns al supplementare. E gara5 si gioca a Chicago. I preparativi per i festeggiamenti in città fanno scattare qualcosa in più a Phoenix e tolgono qualcosa a Chicago. Solo Jordan e Pippen sono all’altezza, Phoenix vince 108-98 e gioca molto meglio, coinvolgendo tutti, non solo Barkley. Si torna in Arizona per le ultime due partite. E’ opinione comune che, qualora i Bulls non vincessero gara6, sarebbe impossibile non tanto vincere la settima, ma anche uscire vivi dall’America West Arena.
Nelle tre partite di Chicago è emersa la superiorità di Phoenix sotto canestro. Non solo grazie a Barkley, ma piano piano West sta prendendo il sopravvento su Grant. Perfino Majerle ne ha presi 13 in gara5. Però nei primi tre quarti di gioco i Bulls tirano talmente bene da rendere secondaria la lotta a rimbalzo. Phoenix però è sempre lì. L’ultimo quarto inizia sul 79-87.
“Vedete com’è il basket”
diceva un altro Jordan. Così era soprannominato Aldo Giordani, che da un paio d’anni non c’è più. Lo avrebbe detto nell’ultimo quarto, quando Chicago non ha più forze e Phoenix ha una grande forza, quella di disperazione. Con un parziale di 19-7, dove tutti i 7 punti di Chicago sono realizzati da Jordan, l’ultimo minuto inizia sul 98-94 per i Suns. Jordan segna ancora, Majerle, che aveva segnato il canestro del sorpasso, no: 98-96.
L’azione successiva, l’abbiamo già vista tante volte.
Non va come sarebbe dovuta andare per i Bulls, perché la palla se ne va dalle mani di Jordan per non tornarci. Non va neanche come sarebbe dovuta andare per i Suns, perché Ainge commette un errore fatale, andando a raddoppiare su Horace Grant, che ha sbagliato i suoi ultimi cinque tiri e forse è il peggior uomo in campo per i Bulls. Grant infatti non tira, scarica su Paxson, che con 3 secondi da giocare è libero da tre e segna. Aveva già fatto una cosa simile qualche anno prima.
L’ultima azione, però, non ce la fanno quasi mai vedere.
Con 3 secondi, infatti, Phoenix può ancora costruire un buon tiro. E lo fa, perché grazie a un paio di blocchi ben portati e ben sfruttati, Kevin Johnson prende il centro dell’area a va per tirare in sospensione. Solo che viene stoppato da dietro. Da chi? Da Horace Grant, il peggior uomo dei Bulls nell’ultimo quarto. Fino all’assist per Paxson e alla stoppata su Johnson. Non era solo la sospetta gola profonda, come fa sembrare “The last dance”, insomma…
Cosa mancava
A rivedere e rileggere quella finale, l’impressione è che i Phoenix Suns siano stati i primi a non puntare come prima cosa sulla fisicità per battere i Bulls. Hanno perso perché Chicago negli anni precedenti aveva scoperto di avere più risorse e imparato anche quando e come usarle. I Suns come cifra tecnica complessiva avevano qualcosa in meno dei Blazers dell’anno prima, ma se la sono giocata meglio. Hanno potuto farlo anche perché i Bulls qualche difetto lo avevano ancora (La mancanza di killer-instinct della finale con Portland, ad esempio, c’era ancora. E a rimbalzo si soffriva troppo) e quindi no, né la versione 1992 né la 1993 sono la migliore delle sei.
Testamento
n The Last Dance, Barkley racconta candidamente come quella finale avesse cambiato la sua convinzione di essere meglio di Michael Jordan. Ora lo dice a tutti. La prima volta, l’aveva detto in quei giorni del 1993, solo alla figlia. “Amore, credo che Michael Jordan sia meglio di me“. “Ma non avevi mai detto una cosa del genere prima!”. “Non mi ero mai sentito così prima d’ora infatti”. E’ così per tutti, Charles. Niente sarebbe stato com’era prima di Jordan e dei Bulls. E il dopo non sarebbe stato com’è stato, senza Jordan e i Bulls.