Con colpevole ritardo, sono riuscito a leggere “Le vittorie imperfette”, di Emiliano Poddi, di cui avevo mancato per poco la presentazione, avvenuta a Torino un paio di giorni dopo quella di Olimpiche, nella stessa libreria. Libro incentrato sulla finale del torneo olimpico di basket di Monaco 1972 tra USA e URSS, che come ogni sfida tra americani e sovietici (anche negli scacchi, come quella tra Fisher e Spassky, citata nel libro) era carica di significati extra-sportivi. Ciò che accadde il 9 settembre 1972, cioè 45 anni fa, vale la pena di essere sintetizzato. Gli USA, che vengono da 63 vittorie e 0 sconfitte da Berlino ’36 (primi Giochi col basket) fino a quel momento, sono stati sotto tutta la partita, schiacciati da Sergej Belov, dalla tensione e dal gioco troppo controllato di coach Iba. Gioco “rotto” durante un time-out praticamente gestito da Kevin Joyce, che poi diventa uno dei protagonisti della rimonta americana, finché a 3” dalla fine due tiri liberi di Doug Collins portano in vantaggio gli USA per la prima volta nella partita. Il gioco riparte con Belov che corre verso il canestro avversario, mentre però la panchina sovietica chiede time-out, bruciando altri due secondi. 19’59”, dice il tabellone. Esultano giocatori e tifosi americani, mentre gli arbitri si preparano a far giocare l’ultimo secondo. Glielo impedisce però il presidente della FIBA William Jones, inglese nato a Roma, che entra in campo e ordina di far ripartire il gioco da 19’57”, accogliendo quindi la richiesta di time-out che però l’URSS non avrebbe avuto diritto a chiedere secondo le regole FIBA. Rimessa di Edeseko per Aleksander Belov, che è il pivot e non è parente di Sergej. Anzi, a differenza del suo omonimo, ha giocato malissimo. Troppo lunga, non ci arriva, stavolta è finita davvero. E invece no. Jones dice che c’è stato un problema col cronometro, che non è partito e quindi la partita ricomincia per la terza volta. La rimessa stavolta arriva a Belov, che per saltare più in alto di Forbes e Kevin Joyce, che lo stanno marcando, si appoggia su entrambi, che cadono a terra. Lui prende il pallone, forse commette infrazione di passi e segna il canestro della vittoria sovietica. La FIBA impiega 18 ore per esaminare il ricorso americano e poi assegna all’URSS la medaglia d’oro e agli USA quella d’argento, che però i giocatori americani non ritireranno mai, lasciando il podio vuoto. Un caso simile accade nell’hockey, con i giocatori del Pakistan che salgono sul podio legandosi alla caviglia la medaglia d’argento dopo aver perso una controversa finale con l’India. Ma questa è un’altra storia.
Sono tante, invece, le storie che s’intrecciano nel libro di Emiliano Poddi. La sua e quella della sua famiglia, che senza saltare neanche troppi passaggi logici, dipende esattamente da quella partita, il cui esito diede al padre il coraggio di dichiararsi alla madre. Genitori entrambi cestisti, peraltro. Quella di Aleksander Belov, il vincitore, per il quale quello fu l’ultimo momento di serenità. Non giocò più ai suoi livelli, il PCUS gli negò la possibilità di giocare in NBA, fu arrestato con l’accusa di aver contrabbandato dei jeans americani comprati proprio a Monaco, gli fu diagnosticata una rara forma di tumore cardiaco e poi morì in carcere senza che però fossero rese note le ragioni del decesso. Quella di Kevin Joyce, lo sconfitto, che invece proprio da quel giorno ha iniziato un lungo percorso alla ricerca della serenità, cercando di scendere a patti con quanto accaduto a Monaco, pur senza riuscirci. I giocatori di quella nazionale si ritrovano ogni 10 anni, hanno giurato di non ritirare mai le medaglie, che dovrebbero essere ancora chiuse nella sede del CIO a Losanna. Anzi, hanno inviato una richiesta di condivisione della medaglia d’oro.
La storia è ovviamente romanzata, perché l’autore va a scavare non solo in ciò che ha significato quella partita per sé stesso, ma anche negli opposti destini del vincitore e dello sconfitto. Il quale in realtà si reca a Losanna senza grande convinzione (mentre tutti lo credono a Londra a guardare le Olimpiadi), illudendosi di trovarla grazie a un’affascinante guida di una mostra di Hooper, che tra i suoi soggetti metteva “gli atleti, purché sconfitti”. A proposito, in quei giorni a Torino, oltre alla presentazione di “Le vittorie imperfette”, mi sono perso anche la mostra di Hooper. Ma questo non c’entra. La medaglia non si rivela essere a Losanna, la ricerca continua a Monaco e poi resta in sospeso. Kevin tradirà il giuramento? Vuole veramente quella medaglia d’argento? Riuscirà a scendere a patti con il torto subito? Il percorso del Joyce romanzato è ancora in corso, così come quello del Joyce vero.
Di quella partita accenna anche Flavio Tranquillo nel suo “Altro giro, altro tiro, altro regalo”, scegliendola – sicuramente non a caso – come paradigma dell’ingiustizia di uno sport, il basket, che tende ad essere giusto e a premiare sempre chi merita. “Rispettare il risultato e l’avversario – scrive Tranquillo – non può e non deve essere un optional, soprattutto quando pensiamo di aver subito un’ingiustizia”. Poi scrive che naturalmente quegli errori, che peraltro è difficile pensare fossero in buona fede, furono decisivi per far vincere l’URSS, che pure aveva dominato la partita. Episodi però “non sufficienti a giustificare la mancata presentazione sul podio”. Ha ragione e il rispetto per il Gioco che pervade le pagine del suo libro è un concetto da applicare a tutto lo sport in generale. Ma è anche vero che bisognerebbe viverla una situazione del genere e con “Le vittorie imperfette” hai la sensazione di viverla da entrambi i lati del campo.