“E’ stata magica ed elettrizzante. Una gara che, lo sapevamo, sarebbe stata ricordata per molto tempo. Ma nessuno sapeva perché quella gara sarebbe stata ricordata”. La gara è quella del 23 settembre 1988: la finale olimpica dei 100 metri vinta da Ben Johnson. O, recita il titolo del libro dell’autore di queste parole, Richard Moore, “la gara più sporca della storia”. Il libro è del 2012, la definizione è più antica, perché l’aveva data già Emanuela Audisio nel 2003.
Nel 2003 Carl Lewis, secondo classificato dietro Ben Johnson, aveva rivelato che non avrebbe dovuto neanche partecipare, essendo stato trovato positivo ai trials. Avevano insabbiato tutto. Sostanza presente in un prodotto di erboristeria, scrisse il suo avvocato, fu creduto e non se n’era mai saputo nulla fino al 2003. Al momento della rivelazione, peraltro, Lewis sapeva che le carte stavano uscendo fuori.
Terzo classificato Linford Christie, inglese. Pochi giorni dopo, alla vigilia della finale dei 200 metri, i controlli rivelarono tracce di sostanze illecite anche nella sua urina. Si mossero la federazione britannica, il governo di Londra che minacciò di ritirare tutti gli atleti, la principessa Anna d’Inghilterra, membro Cio, andò a parlare di persona col presidente Samaranch. “Solo un tè al ginseng”. Gli credettero (altro che la carne di Contador). D’altronde, il tè in Inghilterra lo sanno fare. 11 anni dopo, squalificarono Christie per doping. Nel frattempo aveva vinto i 100 ai Giochi olimpici di Barcellona 1992.
Quinto classificato, Dennis Mitchell. Anni dopo è stato trovato positivo al testosterone e ha confessato di essersi sempre (quindi anche nel 1988) sottoposto a trattamenti a base di ormone della crescita. Settimo, Desai Williams, canadese. Lo allenava lo stesso coach di Ben Johnson, Francis, che ha ammesso di aver assunto anche lui steroidi anabolizzanti. Ottavo classificato Ray Stewart, giamaicano. Divenuto allenatore, ha trafficato in sostanze dopanti e quando la Iaaf se n’è accorta lo ha radiato.
Un podio per due
In sostanza, sul podio della finale olimpica dei 100 metri di Seul 1988 sarebbero dovuti salire in due. Il terzo, Calvin Smith, primatista del mondo fino a quel giorno (“Sì, sento che quella medaglia d’oro dovrebbe essere mia”, ha detto a Moore, nel libro), e il quinto, il brasiliano Robson Da Silva.
Poi naturalmente c’è il primo, Ben Johnson. Tutti conoscono la storia. Lo squalificarono due giorni dopo per Stanozololo, anabolizzante vietato. Il fatto che abbia pagato solo lui, magari anche per un complotto, chi lo sa, non lo rende di certo più pulito o meno colpevole degli altri. Di certo il dibattito “Dopato!” – “Tanto lo fanno tutti”, iniziò quel giorno e continua ancora ogni volta che lo sport ce ne dà occasione.
In pochi difesero Ben Johnson, in quei giorni. Tra essi, il suo avvocato. Un ex nuotatore di buon livello, quinto classificato nei 100 stile libero a Roma 1960. Un avvocato canadese. Richard Dick Pound, che poi fu per 8 anni presidente della Wada, l’organismo internazionale antidoping.